Intervista a Stella Tasca

“Tutte le strade portano a Roma”, si sa, ma se ciò è vero lo è anche l’immagine speculare: molte storie prendono avvio dagli angoli della Capitale e raccontarle significa creare dei ponti tra linguaggi solo apparentemente distanti, tra stili ed esperienze che si ispirano a vicenda in un flusso continuo e dagli esiti inediti.

È questa la riflessione che la chiacchierata con Stella Tasca ha suscitato in noi, uno scambio molto interessante che qui vi proponiamo.

Ciao Stella, grazie per il tempo che ci dedichi. Innanzitutto vorrei chiederti: come definiresti la tua arte?

Ciao! Di nulla, grazie a voi! Diciamo che definirsi è sempre difficile: io vengo dalla scena punk underground romana di poco più di vent’anni fa, a ciò va poi associato, per esempio, il fatto che i colori da me utilizzati fin dall’inizio sono quelli originali degli anni ‘80 che mio padre usava in serigrafia, le polveri di quarant’anni fa. E li uso su tutte le superfici, anche per le matriosche in gesso, sebbene ora stia adoperando anche prodotti più in linea con le tecniche contemporanee. Quindi darei una definizione precisa della mia arte solo a patto di non tradire nessuna componente di essa: davvero difficile!

È vero, ogni definizione è sempre parziale. Però questo discorso sul colore è interessante, soprattutto per l’uso che ne fai nelle tue opere: puoi dirci di più?

Sì, utilizzo sempre gli stessi colori: essi sono parte integrante del mio linguaggio e creano un’uniformità espressiva. Sono tonalità fluo, d’impatto, che ben rispondono all’idea che voglio trasmettere: prendo iconografie esistenti e le ripropongo, penso infatti che nella tradizione ci sia tutto. Porto i soggetti nella mia dimensione e li faccio propri reinterpretandoli coi miei colori: il trasportare altrove ciò che già c’è lo preferisco al creare da zero. La destinazione è una scena ideale e il mezzo è, appunto, il mio cromatismo. Di fronte ad un nuovo lavoro mi chiedo: se quell’iconografia parlasse all’attualità come sarebbe?

Chiarissimo! A me ricorda il concetto antropologico di “bricolage”: decontestualizzare un oggetto affinché assuma un nuovo valore proprio ed inedito. D’altronde hai citato la sottocultura punk poco fa, giusto?

Esatto, la matrice è quella: all’inizio facevo collage di giornali, ritagli sullo stesso tema, e ci inserivo dischi hardcore della scena “straight edge”, ne facevo parte all’epoca! Oppure utilizzavo testi di brani musicali, di Pasolini o di altri poeti romani. L’idea era di partire da un disco punk e creare una scena ideale in cui portarlo, sullo sfondo c’erano parole dell’attualità. L’aver fatto parte della “Roma straight edge legion” ha contato molto: la scena hardcore romana si configurava come una vera e propria microsocietà in cui curavamo tutto noi, fanzine, magliette, dischi.

E il passaggio dal bi- al tridimensionale rientra nell’evoluzione di questa poetica?

Realizzo opere tridimensionali relativamente da poco. Ho studiato al liceo artistico e poi all’accademia delle belle arti ma ho iniziato a dipingere in un periodo successivo rispetto a quello in cui studiavo. Certamente nel 3D, ceramica o gesso, c’è una dimensione che il disegno non riesce ad esprimere.

Secondo te si può essere punk oggi?

Sì, a patto di non essere fuori dal mondo. Bisogna saper fluire se si vuole realizzare qualcosa che coinvolga un pubblico che non sia costituito solo dai propri simili: l’importante è riuscire a 

mantenere sempre la propria genuinità.

Intervista di Luigi Costigliola – luigicostigliola@yahoo.it