Intervista a Mattia Maudit
in occasione del vernissage di “Animaletters”
28-30 aprile 2023
Si fa presto a dire “graffiti”, così come è facile parlare di “tatuaggio”: ma cosa succede se le due dimensioni si mescolano tra loro? Ancor più complesso diventa parlare in generale di street art tenendo presente che la contaminazione è parte di un’evoluzione stilistica e culturale di gruppi e movimenti che ormai da decenni scrivono, letteralmente, la storia urbana e artistica di Roma e non solo. Ne abbiamo parlato con Mattia Maudit, protagonista della scena romana dalla fine degli anni Novanta e cofondatore del collettivo artistico Genuine Crew, in occasione del vernissage della sua Animaletters.
Ciao Mattia! Da dove inizia il tuo percorso artistico?
Ciao! Io provengo dal mondo dei graffiti, sono figlio del ‘97, ossia di quel periodo a cavallo tra i due millenni nel quale Roma viveva un grande fermento e in cui sono nati i gruppi più rappresentativi della storia del writing capitolino, attivi ancora oggi e protagonisti della cosiddetta “street art”. Nel corso degli anni ho avuto varie influenze: sono partito dal graffito per poi sperimentare nei campi dell’architettura e, successivamente, dell’anatomia. Mi interessano molto lo studio della struttura umana e, in generale, la meccanica dei corpi: dalla ricerca in questi ambiti, quindi dal lavoro sulle strutture architettoniche e dal loro interfacciarsi con l’anatomia, umana prima e animale poi, ho elaborato il mio stile. La matrice iniziale delle mie produzioni era legata più al mondo dei puppet: rappresentavo personaggi che già allora avevano un impatto visivo abbastanza forte. Le loro fisionomie erano esasperate in molti tratti, di ogni personaggio, animali o figure umane che fossero, erano esagerate alcune qualità fisiche: occhi più grandi del normale, corporature smisurate e altezze spropositate. Fondamentale passaggio è stato per me la conoscenza del mondo di Hans Ruedi Giger, artista padredell’immaginario iconografico del film Alien: la sua lezione, in accordo con la mia attenzione per il mondo organico, ha avuto una forte influenza nella definizione del mio stile.
Come sei approdato ad Animaletters?
Col tempo, collaborando con diversi artisti, mi sono appassionato ai segni grafici delle lettere: era il tassello finale per arrivare ad Animaletters e all’unione dei due mondi, figurativo e letterale, che il progetto rappresenta. Già in passato, quando realizzavo lettere assieme ai miei colleghi, tendevo a sviscerarle, a riprodurle scuoiate mettendone a nudo la struttura e ricercandone l’essenza del tratto e impegnandomi a dare una dimensione più organica a quello che di fatto è un segno grafico.
Animaletters nasce in quest’ottica e, dunque, non si tratta di un progetto didattico: le lettere che raffigura, associate ciascuna ad un soggetto tratto dal mondo animale, non rappresentano direttamente la figura, l’iniziale del nome della creatura associata ad esempio, ma le si avvicinano stilisticamente, cioè dal punto di vista del design della forma e del movimento. Questo studio è raccolto in un libro, Animaletters appunto, che raccoglie tutte le lettere dell’alfabeto: a ciascuna di esse è dedicata una coppia di pagine che riporta lo schizzo preparatorio digitalizzato, a sinistra, e la grafica finale, a destra, completa e inchiostrata.
Come realizzi le tue opere?
Ogni pezzo, pagina del libro o tavola incorniciata esposta oggi, nasce da uno schizzo preparatorio a matita realizzato di getto su un supporto cartaceo. Questo viene poi fotografato, digitalizzato e dunque inchiostrato ed elaborato. È lo stesso processo che metto in atto quando lavoro manualmente coi colori, riportare in digitale per facilitare la resa grafica dell’opera in vista della stampa: il libro in formato A5 era l’iniziale destinazione del progetto di cui qui oggi vediamo esposte le singole tavole.
La scelta dei colori nasce dalla mia sensibilità mentre l’uso che faccio delle tinte deriva dal graffitismo, non da una lezione accademica ma da esperienze e teorie personali che riporto in strada così come su carta e in digitale. È una ricerca continua, ho fatto studi artistici ma l’attitudine personale mi ha portato ad elaborare il mio stile: è un linguaggio individuale sviluppatosi dall’unione di esperienze e pratica quotidiana, sebbene contempli influenze architettoniche, anatomiche e grafiche.
Quali differenze noti tra la scena del writing degli anni ‘90 e quella della street art odierna?
L’attuale street art, quella che per me rappresenta il nucleo più solido dell’intera scena, è figlia del graffito. Tutti gli street artist con stili più definiti vengono da lì, sanno rapportarsi con un supporto difficile come un’intera parete e sono spesso illustratori, non vengono da uno studio accademico. Ognuno di loro ha un tratto personale e distintivo. La maggiore attenzione di cui gode l’arte urbana oggi ha dato molta risonanza agli artisti contemporanei in generale, non solo street artist, e col passare del tempo ciascuno è diventato anche altro: qualcuno è diventato architetto, altri, come me, tatuatori, altri ancora hanno continuato a specializzarsi nel graffito. Ciò che è cambiato è invece il ruolo delle crew: tutti noi figli del ‘97 eravamo nello stesso gruppo. Qui a Roma noi siamo stati plasmati dal clima culturale di realtà come la 23 Records, la PDB, e in generale dall’universo delle fanzine e delle riviste che ci facevano conoscere i gruppi principali della scena italiana e non. Ora siamo cresciuti, le crew e le collaborazioni sono rimaste ma ognuno ha sviluppato una sua strada “solista”. Il grosso fermento artistico che c’era a Roma e in Italia in quegli anni era legato anche alla rivoluzione dell’hip hop, sentivamo che c’era qualcosa da raccontare. Se viene meno la cultura musicale, assieme ai fenomeni artistici muta anche il contenuto, ciò che si racconta. Spesso oggi vediamo lavori tecnicamente impeccabili ma privi di ricerca e di quella contaminazione e vocazione al confronto che avere una crew ti portava inevitabilmente a fare. Il rischio è che oggi si perda questa dimensione: l’artista tende ad essere autoreferenziato, ad andare per la sua strada.
Questa pluralità di linguaggi si nota in Animaletters: ogni lettera ha un suo stile e non fa parte di un unico alfabeto grafico.
È vero, ogni lettera nasce da uno studio ad essa dedicato, si passa ad esempio dallo stile flop della “W” all’ascendente gotico di altri segni come “R” o “I”, carattere, quest’ultimo, che si ritrova nel mio linguaggio e nel tatuaggio in generale così come in tanta parte del graffitismo. Il mio stile è parecchio gotico e scuro, infatti i primi puppet che rappresentavo avevano un forte impatto sul pubblico: alcuni miei lavori, realizzati in team su muri “legali”, furono coperti perché avvertiti come troppo cruenti. A parer mio il graffito e la street art hanno per natura un impatto forte e sono concepiti in maniera tale che non se ne possa ignorare la presenza. I tempi oggi sono cambiati, e non è colpa di nessuno: l’impatto della street art, in generale, è meno destabilizzante e forse ciò dà spazio a molti artisti che magari prima non sarebbero emersi. I primi street artist erano principalmente writers, invece da quando le istituzioni hanno rivolto la loro attenzione alla street art si è dato spazio anche ad artisti provenienti da un percorso più accademico. Tuttavia, a ben vedere, il graffito continua a mantenere la sua “radicalità”: basti pensare che ci sono corsi organizzati su moltissime forme d’arte ma quasi nessuno sui graffiti. Il linguaggio del writing rimane più selvaggio, meno domabile e imbrigliabile in categorie per quanto si sia spesso provato a farlo.
Grazie Mattia!
Di nulla, grazie a voi!
Intervista di Luigi Costigliola da un’idea di Marta di Meglio
luigicostigliola@yahoo.it