Intervista a Linda De Zen e a Lola Giffard-Bouvier

In occasione del vernissage della mostra bi-personale “Oh my God, look them!”

Perdere per un attimo i propri punti di riferimento per ritrovarne subito di nuovi, sentirsi al centro del campo visivo di ciò che di solito è oggetto di osservazione, in uno spazio conosciuto ma percepito come del tutto nuovo. Provare, in una parola, stupore: quello di scoprirsi a dialogare attraverso la propria opera con l’osservatore che al contempo le risponde, stupito anch’egli, arricchendola di un nuovo significato.

Tutto questo può sembrare una descrizione, astratta ed ingigantita, di ciò che si prova abitualmente partecipando ad una mostra, ma non è così: sì, perché dietro al lavoro di Linda De Zen e di Lola Giffard-Bouvier, e a quello della curatrice Rossana Calbi, c’è un chiaro intento programmatico, un’idea di estetica propria e ben definita.

Abbiamo chiesto alle protagoniste di “Oh my God, look them!” di spiegarcela, sempre qui ad Up – Urban Prospective Factory.

Ciao a tutte e grazie per il tempo che ci dedicate. Linda, partiamo da te: ci racconteresti qualcosa del tuo percorso e della tua arte?

Linda De Zen: Ciao, assolutamente! Il mio percorso artistico non è iniziato presto, ho cominciato a disegnare a ventotto anni, prima lavoravo in un’azienda agricola. In quel periodo collaboravo con dei ragazzi all’organizzazione di festival di arti circensi: quasi per gioco ho iniziato a realizzare dei ritratti mentre ero bendata ed è da qui che è partito tutto. Realizzo opere mentre sono bendata oppure mentre guardo il soggetto o la sua proiezione mentale. Lo studio sul colore avviene prima ma all’atto del disegnare il tratto non è accompagnato dalla parte visiva, cioè i miei occhi non si posano mai sulla tela o sul foglio. Dopo aver scoperto questa mia inclinazione all’arte ho deciso di trasferirmi dal Veneto a Roma: ho esposto prima in una galleria nei pressi di Piazza Navona, il cui proprietario aveva notato i ritratti che facevo ad una cameriera. Poi ho conosciuto Rossana Calbi e la collaborazione con lei si è rivelata fin da subito molto stimolante e fruttuosa.

Complimenti davvero! [Affermo con lo stupore di chi, nel frattempo, ha appena ricevuto un suo ritratto che Linda ha realizzato in due minuti senza fissare il foglio, ndr.] Allora ne approfitto per chiederti qualcosa in più sulle tecniche che adotti.

Linda: Il linguaggio che preferisco è il figurativo, da esprimere su tela o in forma di illustrazione. L’uso della penna 3D è stato invece un esperimento, non facile anche perché in commercio ci sono quasi esclusivamente quelle per bambini, non veri e propri strumenti professionali. Il bello di questa tecnica, oltre al fatto che l’acido polilattico è ottenuto a partire da materiali grezzi rinnovabili e naturali, è che tutti la intendono come un pieno, come si penserebbe a proposito di una stampa, ma è in realtà un segno che contiene il vuoto: il segno racchiude l’aria. Tu creando aggiungi, ma all’osservatore appare una sottrazione: a prescindere dalla grandezza dell’opera il pieno e il vuoto finiscono per raccordarsi armonicamente.

E invece come scegli i soggetti delle tue opere? Che ruolo giocano nell’economia della mostra?

Linda: In questa mostra volevo qualcuno o qualcosa che facesse sentire a disagio. Volevo dare forma all’idea che l’osservatore, proprio lui, si sentisse osservato dalle opere stesse. Preferisco i volti agli oggetti, la forma umana permette di ricreare un’idea di movimento, di fissare un attimo che in realtà non è un attimo. È essenzialmente un gioco di mani e di sguardi ciò in cui consiste questa mostra: lo si vede sulla tela a parete, in cui spiccano gli occhi delle figure e gli inviti che le loro mani sembrano presentare, e così nelle piccole tele, devono dare un’idea di disagio che è in realtà la chiave di acceso alla partecipazione attiva nella mostra stessa. Allo stesso modo, e in grande, la parete di fondo, visibile appena si entra: deforma lo spazio dell’intero ambiente espositivo e al suo centro si colloca la figura umana realizzata con la penna 3D, che indica e osserva te che entri in galleria. Oggi si rischia di andare alle mostre come si va al supermercato, svolgendo un’azione quasi abituale e passiva: bisogna destabilizzare l’individuo così egli è spinto a cercare elementi diversi, una bellezza lontana dall’idea canonica che si ha di essa. Il vero protagonista della mostra è quindi lo spettatore, è lui che aggiunge significato all’opera, significato che si somma a quanto l’artista ha già voluto comunicare con essa. L’opera ha una dimensione pubblica, e la assume non appena esce dallo studio dell’artista: ogni individuo ci deve trovare una sfumatura di sé. Perciò lo studio degli spazi è per me essenziale, essi concorrono a dare significato all’opera stessa, ne sono parte.

Chiarissimo! Passiamo ora alla vostra attività a quattro mani: Lola, com’è nata e com’è stata realizzata la collaborazione con Linda?

Lola Giffard-Bouvier: Tutta la mostra è stata realizzata a quattro mani, e non è la prima volta: io ho fondato una casa editrice indipendente, “Beauroma Books”, e con Linda avevo già realizzato un libro incentrato sulle mani, vi sono riportati disegni di Linda riprodotti con la stampante ad aghi. La nostra collaborazione, nella mostra di oggi, ha assunto forme diverse in ciascuna delle opere esposte. La tela grande sulla parete di destra è stata letteralmente realizzata a quattro mani: ognuna di noi aggiungeva un tratto o una forma alla volta, alternandoci. Per le tele più piccole, invece, ci siamo divise le parti da realizzare. L’opera che accoglie l’osservatore, quella sulla parete in fondo alla galleria, unisce invece la carta da parati da me realizzata alla figura in 3D di Linda: sono tre modalità diverse di lavorare insieme all’opera, a quattro mani.

E pensando invece all’attività editoriale che svolgi, come si traduce in figura la tua passione per la scrittura?

Lola: Dopo la pubblicazione del libro è arrivata la proposta di lavorare insieme a questa mostra: a me piace utilizzare la carta, da editrice quale sono, quindi ho declinato questa mia propensione in vari modi, ad esempio nel realizzare la carta da parati su cui si colloca la figura in 3D, creata replicando un pattern continuo, proprio come avviene nell’editoria, ovviamente con le dovute differenze di supporto.

Concluderei passando la parola a Rossana Calbi, curatrice della mostra. Rossana, qual è l’idea comunicativa alla base dell’allestimento?

Rossana Calbi: Allestire vuol dire arricchire ogni singola opera creando un continuum. L’allestimento è per me una cornice: parto dall’idea figurativa teorica e poi cerco di inserirla in un contesto. Ed è in questo processo che si verificano gli imprevisti: durante l’allestimento di questa mostra, per esempio, il muro non ha retto il peso di una tela, la penna 3D si è rotta ripetutamente e abbiamo dovuto ridurre la grandezza dell’opera da realizzare con essa. È il problema di passare dalla teoria alla pratica, si verificano impedimenti fisici che rischiano di limitare il pensiero di partenza, ma il lato positivo di tutto ciò è che la creatività ne è stimolata: l’imprevisto devia e cambia il tuo pensiero modificandolo. Ricordo un’intervista RAI in cui Ungaretti rispondeva stupito che lui stesso mentre scriveva non aveva visto nelle sue liriche tutti quei significati che il giornalista gli stava elencando: il nostro è un progetto incentrato sullo spettatore, l’idea era, già dalla locandina, quella di spostare sull’osservatore il focus, soprattutto trattandosi di una mostra programmata a conclusione della stagione espositiva della galleria. Dopo aver partecipato a diverse esposizioni, questa volta l’ospite doveva essere il protagonista.

Grazie Rossana! E grazie alle artiste, Linda e Lola, per questo dialogo ricco di spunti.

Di nulla, grazie a voi!

Intervista a cura di Luigi Costigliola – luigicostigliola@yahoo.it