Intervista a Daria Palotti
In occasione dell’opening della personale “Νύξ”
5-26/11/2022
Se tornare all’essenziale è difficile, assai di più lo è farlo sperimentando su vari supporti una danza che dal tridimensionale passa al bidimensionale e viceversa. Ne abbiamo parlato con Daria Palotti che, assieme alla curatrice Rossana Calbi chi ha guidati nella sua “Νύξ”.
Ciao Daria, ci presenteresti il tuo percorso artistico?
Ciao, volentieri. Realizzo opere di arte e artigianato da sempre: sono nata a Pontedera, in provincia di Pisa, e la mia formazione parte dal liceo artistico e dal successivo percorso in accademia di Belle Arti, entrambi frequentati a Firenze. Mi sono diplomata in scenografia pur avendo sempre provato attrattiva per gli indirizzi di scultura e di pittura, ai quali un giorno mi piacerebbe iscrivermi continuando gli studi, chissà. Ciò che ricordo del liceo artistico di qualche tempo fa è che molto spazio era dedicato alle attività laboratoriali: modellamento della creta, ornato di pittura, ad esempio. La mia influenza principale è la vita, tutta, cioè il complesso delle esperienze da me vissute ed interiorizzate al punto che mi risulterebbe difficile anche ripercorrerle con la memoria.
Quali tecniche preferisci utilizzare?
Ne utilizzo varie: innanzitutto la modellazione della creta, che diventa ceramica dopo la colorazione, ma anche la pittura ad olio su tela e l’acquerello. Tuttavia io credo molto nell’irrazionalità, anche nelle scelte più tecniche: per me per esempio è stato normale adottare per la mostra “Νύξ” tele ovali, non quadrate. È una forma che si sposa bene con l’idea della luna ma ciononostante non è questa la ragione principale di questa scelta: alla base c’è stato un moto istintuale di cui mi sono fidata.
Che effetto ti aspetti che il tutto faccia sull’osservatore? Ad esempio a me vedere le tue opere ha evocato l’immagine di una notte “cullata”, accogliente, calda, nonostante il blu, tinta dominante assieme al bianco, sia tendenzialmente un colore freddo.
Le mie opere vengono dal di dentro, e prendono forma: è come la propria voce che chi parla non riesci a sentire ma che gli altri sono in grado di descrivergli meglio di come farebbe lui. La notte “cullata” che hai notato c’è, e c’è molto della dimensione femminile anche, ma in generale l’elemento razionale è ridotto al minimo nella fase creativa: è l’istinto che mi ha guidato.
Anche il titolo della mostra, “notte” in greco antico, rientra in questa poetica?
Sì, è stata un’intuizione di Rossana, la Curatrice: abbiamo scelto questa forma perché era quanto di più essenziale, di più archetipico potessimo trovare. Una notte spoglia da sovrastrutture, mitica ed originaria potremmo dire.
Quali sono invece le altre tematiche che prediligi nella tua attività artistica?
Sono diverse: molte delle mie opere sono dedicate al sogno, altre all’attesa, soprattutto se penso alla mia attività di qualche tempo fa. Ora direi che l’idea predominante nelle mie opere è quella della sospensione, ma è difficile isolare in esse singoli concetti anche per me. Ad esempio, ho dedicato nel mio percorso molta attenzione allo studio della natura, e in un certo senso la notte, tema della mostra appena aperta al pubblico, vi rientra, così come la figura femminile, dietro cui spesso c’è una vena autobiografica che ho espresso anche in vari autoritratti. Spesso i miei soggetti sono anche persone umane trasformate in elementi naturali ed animali.
Quindi il tema della metamorfosi, che mi verrebbe da pensare si presti molto bene al cambio di supporto e al passaggio tra tridimensionale e bidimensionale.
Sì, realizzo sempre opere bidimensionali e al contempo altre tridimensionali ma mi piacerebbe dedicarmi di più alla scultura e lo farò [ridiamo]: mi piacerebbe creare sculture molto grandi, anche se spesso ci sono problemi tecnici o, banalmente, di collocazione nello spazio, che rendono l’impresa difficile. Va pure detto che l’esperienza sembra testimoniare che la pittura venda di più, spesso in casa si ha anche il problema del dove collocare materialmente la scultura.
Forse, immagino, anche perché il pubblico sente la pittura più vicina alla propria sensibilità?
Sì, vero, sembra che sia più difficile rapportarsi con la scultura, anche se per me è un linguaggio che permette l’instaurarsi di un empatia maggiore: è tridimensionale, appunto. A volte, tre o quattro volte, mi è capitato di lavorare ad una scultura così intensamente da percepirla come un’entità dotata di vita propria, un essere a sé stante. È il raggiungimento di un’empatia all’estrema potenza, le sculture possono avere una propria espressione.
E in questi casi i soggetti erano sempre umani?
Sì, al massimo immersi nella natura o un po’ trasformati, come dicevamo prima, con alcune parti animali.
Capita spesso (aggiunge la curatrice Rossana Calbi) che Daria inviti gli astanti a toccare la scultura, specie se si tratta di un pubblico di bambini.
Sì (riprende l’artista), perché una scultura permette il coinvolgimento del tatto, cioè di un altro senso e dunque di un altro mezzo di conoscenza: questa dimensione non è coinvolta nel caso di un’opera pittorica. Sviluppare la percezione sensoriale, poi, è fondamentale nella crescita dei bambini, e sarebbe opportuno anche che gli stessi adulti vivano esperienze del genere.
Concordo, grazie Daria e grazie Rossana!
Di nulla, grazie a voi!
Intervista di Luigi Costigliola – luigicostigliola@yahoo.it