Di seguito vi proponiamo la riflessione di Claudio Gnessi, Presidente dell’Ecomuseo Casilino ad DuasLauros, sulla mostra dedicata al “suo” quartiere.

La Grande Bellezza e la Grande Fregnaccia: appunti per un rovesciamento critico della narrazione urbana

Claudio Gnessi, Presidente dell’Ecomuseo Casilino ad DuasLauros

Cos’è la periferia? Boh, direi di primo acchito. Pensandoci su potrei seguire la logica di Valerio Mattioli in Remoria (Minimum Fax 2019) e ribaltare integralmente il punto di vista. Oppure potrei dar retta a una certa tendenza dell’urbanistica contemporanea e potrei ragionare di policentrismo, integrazione funzionale, flussi. Ma in realtà, almeno per me e per l’Ecomuseo Casilino il tema non si pone, in quanto è proprio il termine “periferia” ad avere poco senso. Non a caso, da quasi due lustri, l’attività dell’Ecomuseo si è, in ultima istanza, sviluppata proprio per disarticolare tale concetto, riportando al centro del discorso pubblico una prospettiva complessa sui cosiddetti territori di margine. Per noi, semplicemente, la periferia non esiste. Esistono i territori, che hanno specificità e complessità uniche, che sono essenziali nel processo di costruzione del senso della città, che conservano e producono un patrimonio sociale, culturale, umano straordinario che per troppo tempo è stato compresso e negato.

L’effetto collaterale di questa attività (che grazie a Dio non è solo nostra) è stato quello di ridare dignità a territori da sempre considerati terre di risulta e fiato a comunità che avevano smesso di raccontarsi. D’altronde, lo sappiamo bene, la via che porta fuori dal centro è lastricata di luoghi comuni, figli di un immaginario urbano tutt’altro che spontaneo, ma costruito semmai con pazienza e una certa dose di perizia.

Parliamo di un immaginario così potente da agire, ora e adesso, anche su di me e su di voi (anche se non lo ammetteremo mai) e che si traduce in quel brivido, in quel riflesso, in quello stato di allerta che proviamo ogni volta che, per esempio, ci lasciamo alle spalle gli archi di Porta Maggiore o emergiamo da una delle stazioni “periferiche” della Metro C.

È la “sindrome del Palo della morte”. Mutuo il nome di questa “sindrome” non tanto dal sopravvalutato film di Verdone, quanto dal libro di Giuliano Santoro “Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia” (Alegre 2015) che tra l’altro la spiega benissimo. Tale sindrome è un effetto collaterale potentissimo frutto del lavorio incessante di decenni di discorsi, politiche e slogan che ci hanno inculcato la logica binaria centro/periferia. Una dicotomia violenta e definitiva che produce una visione della città fondata su opposizioni ontologiche: luce/ombra; bello/brutto; dentro/fuori; vicino/lontano; noi/altri; cultura/natura.

Per chi vive quei territori il “palo della morte” è la chiave per autorappresentarsi: ultimi, distanti, negletti. Complice anche quella “mitologia della Borgata” tanto cara a certa intellighenzia progressista, l’immaginario di queste persone e i loro bisogni si sono tarati su un orizzonte di margine, nell’attesa dell’ennesima riqualificazione, dell’ennesima emancipazione, dell’ennesima occasione.

Per chi decide, invece, il “palo della morte” è il paradigma su cui impostare politiche e interventi su territori caratterizzati (per loro) solo dal fatto che hanno il bacino elettorale più ampio. In tal senso la periferizzazione della città è diventata la strategia aurea per appiattire bisogni e istanze della “massa votante” a una grammatica e sintassi omogenea, semplificata ed emergenziale, fondata su quell’immaginario di margine.

Appare evidente che i processi di decostruzione del senso dei luoghi sono, da un lato origine e propellente di fenomeni di marginalità sociale e culturale, dall’altro il contesto costruito e alimentato entro il quale creare spazi di agibilità politica ed economica.

Solo di recente questi aspetti sono stati chiaramente messi in luce da quella nouvelle vague di associazioni, studiosi, giornalisti e narratori che sta smontando questa Grande Fregnaccia sulle periferie, dimostrando come essa non sia un naturale prodotto di dati di fatto, ma un ordito ben congegnato, giocato sulla pelle di persone ridotte a macchiette e territori trasformati in non luoghi.

Ed è in questo polifonia di voci, narrazioni e ricerche nuove che si inserisce la mostra “Fuori Centro: Tor Pignattara nelle fotografie di Natalino Russo”.

Questo percorso espositivo, immaginato da Natalino Russo e curato da Francesca Pagliaro, propone un’interessante prospettiva che gioca proprio con i meccanismi profondi della produzione del valore e del senso dei luoghi, smontandoli con un meccanismo tanto semplice quanto efficace.

Attraverso un gioco di prestigio degno di De Saussure, la narrazione della mostra disarticola la relazione tra il nome dei luoghi della Grande Bellezza e il loro referente geografico. Ridotti a segni che identificano un sistema di valori e caratteristiche astratte (bello, parco, storico etc.), essi sono relazionabili a qualsivoglia oggetto che ne condivide gli attributi strutturali. Villa Borghese, per esempio, non indica più solamente la storica villa romana, ma diventa un segno collegabile con qualsiasi parco che possa essere definito bello, storico, culturalmente rilevante. E allora perché non indicare con tale segno anche quel parco che noi chiamiamo Villa De Sanctis? D’altronde anche quest’area verde è storica, bella e culturalmente rilevante. Secondo questa logica esiste una Villa Borghese in ogni quartiere e non ha più senso indicare come Villa Borghesesolo “quel parco”. E, sempre secondo questa logica, nulla ci vieta di affermare che Villa Borghese è la Villa De Sanctis del Pinciano.

Questo processo da un lato ci porta a cambiare la prospettiva sugli oggetti “della bellezza”, riconoscendo la possibilità che essi esistano anche laddove sono stati da sempre negati, dall’altro produce un rovesciamento ironico che ci interroga su quei meccanismi (anche economici) attraverso i quali viene prodotto il senso e il valore dei luoghi.

Ma, cosa più importante, grazie all’immediatezza e profondità sospesa degli scatti di Natalino Russo, il progetto interroga prima di tutto gli abitanti del quartiere di Tor Pignattara, spingendoli a re-interpretare il valore dello spazio quotidiano. L’associazione tra luoghi del quartiere e luoghi turistici della città, di fatto, annulla il valore che sino ad ora ciascuno di noi aveva dato a quelle piazze, a quei parchi, a quelle strade. I luoghi, disseccati da ogni possibile significazione preordinata, sono finalmente disponibili a essere raccontati in modo diverso: con nuove categorie, valori, sensi e prospettive.

Il merito più grande della mostra sta proprio in questo invito alla liberazione dalle maglie di una visione/narrazione preordinata. In questo sprone a (ri)guardare i luoghi, a farli propri, a dargli un proprio senso e segno. A costruire, in modo personale e collettivo, una nuova geografia emozionale di Tor Pignattara e di tutti i territori sino ad oggi considerati solo ed esclusivamente “periferia”.